Gli
animali più frequentemente utilizzati nelle attività agricole erano
un tempo a Gallichio, come in tanti altri paesi del Mezzogiorno, e più in
generale dell'intera area mediterranea, l'asino e il bue. Il primo
era in passato inseparabile dal contadino. A farne l'ideale animale
da trasporto concorreva, qui ancor più che altrove, la particolare
conformazione dell'abitato: è difficile immaginare un altro animale
in grado di arrampicarsi in modo altrettanto agevole sulle strade.
L'asino non veniva adoperato, però, soltanto per il trasferimento
quotidiano in campagna e il trasporto delle merci: veniva anche
usato, soprattutto dai contadini in alcuni lavori
agricoli, ad esempio per trainare l'aratro e l'erpice, almeno i tipi
più piccoli e meno pesanti. Questo spiega l'elevato numero degli
asini a
Gallicchio
fino agli anni '70.
La bottega
del fabbro
era un continuo via vai di persone che avevano
bisogno di nuove ferrature, perché
la
presenza del “ferro“ consentiva di evitare il logorarsi dello zoccolo
dell'asino
salvaguardando l'integrità della parte interna, callosa e non
cornea..
Pochi
attrezzi costituivano il corredo del fabbro, pinza, maglio, incudine,
forgia e tanta forza nelle braccia. Dalle prime ore del mattino,
poco dopo che il carbone nella forgia avesse iniziato a
scoppiettare, il fabbro era già all'opera. I colpi secchi inferti al
ferro rovente battuto sull'incudine, avvisava il vicinato
dell'inizio di una nuova lunga giornata di lavoro. La ferratura era preceduta
dalla sferratura dal vecchio ferro, l'unghia dello zoccolo veniva
quindi tagliata e livellata.
Gli attrezzi indispensabili per
il pareggio erano la "ròiënë"
(cfr. figura sottostante)
e la raspa. Terminato il pareggio, il fabbro
sceglieva il ferro di dimensioni e di forma più
adatta allo zoccolo, lavorandolo con la mazza e
l'incudine, se necessario, a caldo o a freddo, fino ad
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ottenere la
migliore corrispondenza possibile. Per verificare la
presenza di un contatto perfetto fra la superficie inferiore dello
zoccolo e la superficie superiore del ferro, il fabbro procedeva alla cosiddetta "ferratura a caldo"; applicava, cioè, il
ferro arroventato allo zoccolo stesso,
diffondendo nell' aria un gran puzzo di unghie bruciate, per verificare che l'azione del
calore lasciasse una traccia omogenea e continua in tutto il perimetro
del ferro. Ottenuta la maggiore corrispondenza possibile fra zoccolo e
ferro, il fabbro procedeva all'inchiodatura, utilizzando
dei chiodi
lamellari a testa quadra (i pòstë),
infissi obliquamente. Dopo un adeguato accorciamento
della parte sporgente, la punta dei chiodi veniva ribattuta verso il basso.
L’operazione si
svolgeva all’aperto e il padrone dell’animale era quello deputato a
sostenere la zampa nella giusta posizione ma, nonostante ciò,
capitava anche che qualche asino, non ben disposto, si mettesse a
scalciare, mettendo a rischio l’incolumità dei passanti. Quando la
bestia non era molto consenziente si usava, per ammansirla, un
attrezzo detto "u turcëtùrë"
(il torcinaso) che consisteva
in un
laccio legato ad anello all'estremità di un'asta di legno che,
ruotata, stringeva il laccio attorno al muso dell'animale
costringendolo a stare immobile.
L'ultimo
fabbro-maniscalco di Galicchio è stato Filippo Balzano (classe 1929,
morto nel 2002), chiamato Màstë Fëlìppë, che oltre ai ferri degli
asini e dei muli, forgiava o temperava sull' incudine
vari tipi di zappe
(zàppë,
zappëtéllë, zappùllë), piconi
a un solo dente (sciamàrrë) e a due denti (sciamàrr'
a cròccë), scuri, accette, mazze, cunei, parti dell'aratro
(vòmërë) ecc..
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